martedì 24 febbraio 2009


UNA FINE ANNUNCIATA


di Giulio Scarrone - www.avanti.it

24/02/2009 -
All’inizio degli anni Duemila, Massimo D’Alema ha fatto una dichiarazione, contenuta in un libro edito da Longanesi, che può essere considerata propedeutica agli avvenimenti che, negli anni seguenti, hanno segnato la crisi del Pd, fino ad arrivare alle dimissioni di Veltroni da segretario del partito.
Riferendosi alla caduta del Muro di Berlino e alla fine dell’Urss, D’Alema dice: “Dovevamo cambiare nome. Non avevamo alternative. Eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista. Come uscire da quel canyon? Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti, in un Paese europeo occidentale. Quindi rappresentava lui la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico, avvinghiato al potere democristiano. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora, avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia”.I comunisti, socialisti non lo sono mai diventati. Dal tempo delle dichiarazioni di D’Alema in poi, attraverso i vari passaggi - Pci, Pds, Ds e Pd - hanno cercato di essere tutto e il contrario di tutto, ma socialisti mai. Anzi, proprio in mancanza di questa scelta precisa, alla fine nel Pd, come è stato scritto, si sono date appuntamento il peggio della tradizione comunista e di quella democristiana, col risultato di un partito che nel corso del tempo ci si è sforzati di definire “aperto”, “leggero”, “liquido”, “fluido”, “all’americana”, tutto fuorché “socialista”. Col risultato che, in assenza di una connotazione politica chiara, il Pd come partito non è mai nato: tanto è vero che, ieri, tre milioni di italiani, nelle primarie - dall’esito scontato - avevano eletto Veltroni segretario di un partito senza statuto e senza iscritti, e oggi, nelle stesse condizioni, è stato eletto Franceschini.Il nuovo segretario è stato scelto dall’apparato, prima ancora che dagli iscritti, perché oggi come oggi il Pd non ha un leader a disposizione e quelli che ci sono “in pectore”, vista l’aria che tira, si guardano bene dall’esporsi in prima persona. Quindi è passata l’idea - come ha detto con una battuta di spirito un delegato all’assemblea costituente - che valesse la pena di mettere un democristiano alla guida del Pci. Ma, battuta di spirito a parte, la contraddizione c’è tutta. E la conferma viene proprio dalla vittima di questa contraddizione, vale a dire lo stesso Franceschini, il quale, nel suo discorso d’investitura, anziché indicare delle soluzioni politiche alla crisi del Pd, si è rifugiato nel più scontato antiberlusconismo, indicando nell’attuale governo e nel suo presidente la causa di tutti i mali, presenti e futuri, del Paese. Ma perché Veltroni ieri e Franceschini oggi avessero potuto indicare delle politiche alternative, si richiedeva una condizione molto semplice e chiara: avere alle spalle un partito con una strategia politica. Cosa che invece non c’è mai stata. Ed è in questa mancanza di fondo che si ritrova la causa principale della fine annunciata dello stesso Pd. Dove, anziché scegliere una politica, si preferisce continuare ad affidarsi a espedienti, pur di tirare a campare.Si è detto che le dimissioni di Veltroni abbiano colto di sorpresa i dirigenti del Pd. E già questo fatto la dice lunga sullo stato dei rapporti nel gruppo dirigente del partito. In ogni modo, anziché incanalare la discussione sul merito politico delle dimissioni, si è preferito ancora una volta orientarla sul calendario, continuando quella navigazione a vista tra un appuntamento istituzionale e l’altro, senza che a nessuno venisse in mente la semplice domanda: ma che cosa andiamo a raccontare alla gente? In queste condizioni, Franceschini è stato chiamato a tenere assieme i cocci del Pd, in vista delle elezioni europee del prossimo mese di giugno, che rappresentano un po’ il “big bang” per il partito. Nel caso di un’ennesima sconfitta (come tutto lascia prevedere) non ci sarebbe più collante capace di tenere assieme le due anime - ex Pci ed ex Dc - che finora hanno coabitato nel Pd. Da questo punto di vista, assumono un significato ben preciso gli incontri che gli esponenti dell’ex Margherita - a partire da Rutelli - hanno sempre più frequentemente con Casini e gli altri leader dell’Udc, in vista di quella grande coalizione di centro della quale si continua a parlare.Per tutte queste ragioni, il cammino del neosegretario del Pd, Franceschini, resta legato a un filo. E che questo filo sia quanto mai sottile, lo dice - tra l’altro - una battuta di Pierluigi Bersani, il quale, confermando la sua candidatura a segretario del Pd nel Congresso di ottobre, ha affermato: “Proverò a rimettere il dentifricio nel tubetto”. Ma non sarebbe più facile provare a scegliere una politica? Magari, decidendosi a passare attraverso quel canyon cui D’Alema faceva riferimento nella dichiarazione citata all’inizio? O è troppo tardi?


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