martedì 12 gennaio 2010

Quel Craxi di Minoli che sa stare lontano dai «due tribunali»

Equilibrio Nella trasmissione né condanne né riabilitazioni ma il racconto di chi è stato Bettino Craxi

Bettino Craxi in prima serata Rai (stasera, La storia siamo noi, RaiDue) è già, di per sé, un evento. E lo è ancora di più perché Giovanni Minoli è riuscito a trattare un materiale ancora così incandescente restando fedele al suo stile e al suo modo di fare storia in tv. Niente condanne senza appello, niente riabilitazioni, quasi che esistesse un qualche tribunale accreditato, con il variare delle circostanze, ora a gettare negli inferi, ora a sottrarvelo per ricondurlo in cielo, un lottatore politico caduto (malamente) lungo la sua battaglia. Se, come credo, si tratta piuttosto di restituire Bettino Craxi, con i suoi meriti e le sue colpe, non al culto dei suoi fedeli o alla esecrazione dei suoi nemici ma più semplicemente alla nostra storia, e quindi di discutere liberamente e criticamente di lui, del suo tempo e della sua (controversa) eredità, non c' è dubbio che questi ottantacinque minuti di tv siano molto più utili, e interessanti, delle entusiastiche agiografie e delle feroci stroncature di questi giorni. A un pubblico per definizione non specialistico come quello televisivo Minoli prova semplicemente a raccontare (anche se la cosa non è davvero semplice) chi è stato Craxi. E lo fa lasciando parlare immagini mai banali (belle, illuminanti, e sin qui praticamente sconosciute, quelle del socialismo autonomista milanese degli anni Cinquanta e Sessanta), e dando voce ai testimoni, lungo una narrazione che cerca di individuare le costanti dell' uomo e della sua politica, ma anche di ricostruirne a grandi linee le diverse stagioni. Il giovane delfino di Pietro Nenni che si fa le ossa (e forma la sua squadra) nelle amministrazioni di centro-sinistra di Milano. Il quarantenne che nel 1976, dopo le dimissioni di Francesco De Martino, diventa segretario del Psi soprattutto in ragione della sua (presunta) debolezza, e in nome della sopravvivenza stessa del partito (primum vivere, fu il suo motto degli esordi) scommette sull' impraticabilità del compromesso storico, lancia la doppia sfida alla Dc e al Pci che assieme disponevano del settanta per cento dei voti, e di fronte al sequestro del più importante dei suoi avversari, Aldo Moro, cerca a tentoni, solitario e additato allo sdegno popolare, una via per evitarne l' assassinio. Il presidente del Consiglio «decisionista» del decreto e del referendum sulla scala mobile («Se lo perdessi, un minuto dopo mi dimetterei») degli euromissili e di Sigonella. Il leader che manca l' appuntamento storico con l' Ottantanove, e per riguadagnare la guida del governo stringe con Andreotti e Forlani un' intesa destinata a fallire. L' aspirante Mitterrand italiano ridotto al rango di Cinghialone ferito, minato dalla malattia, braccato dai magistrati di Mani Pulite, travolto da un' ondata di insofferenza (e di odio) in parte spontanea, in parte organizzata. L' uomo di Hammamet disposto a tornare in Italia solo da uomo libero («la mia libertà è la mia vita») che per la Repubblica è a tutti gli effetti un latitante, ma al quale il governo presieduto da Massimo D' Alema si dichiara pronto a concedere i funerali di Stato. La tomba nel piccolo cimitero tunisino. Una tragedia italiana, un groviglio difficile, se non impossibile, da dipanare. Si può discutere, ci mancherebbe, di questo o di quel passaggio, di qualche frettolosità o di qualche enfasi di troppo nel programma di Minoli. Giudicheranno i telespettatori. Ma il profilo del socialista anticomunista Bettino Craxi che viene proposto loro, perché possano, se vogliono, tirare delle conclusioni, è attendibile e, almeno ai miei occhi, veritiero. A metterlo a fuoco contribuiscono, più ancora dei suoi compagni (da Claudio Martelli a Gianni De Michelis, da Paolo Pillitteri a Massimo Pini e a Claudio Signorile), intellettuali «antipatizzanti» come Luciano Cafagna e, forse più di tutti, politici che in vita non gli furono certo amici. Come Ciriaco De Mita che, ripensando, forse anche autocriticamente, all' imbarazzato e interessato silenzio con cui dieci anni dopo, agli inizi di Mani Pulite, forze politiche e vertici istituzionali risposero al drammatico intervento del segretario socialista a Montecitorio, riconosce che, all' epoca, grandi statisti proprio non se ne videro. O come Alfredo Reichlin che, a proposito della durissima contesa con Berlinguer, segnala come i due fossero destinati a non intendersi, per motivi addirittura «antropologici». Ma ricorda pure, con grande onestà, il giorno in cui Bettino, durante un vertice tra comunisti e socialisti alle Frattocchie, nel 1983, lo prese da parte per dirgli che certo, Enrico era una bravissima persona, ma non aveva neppure una lontana idea dei grandi mutamenti sociali, politici e culturali che stavano cambiando la faccia del Paese, e prima di tutto del Nord, a cominciare dalla sua Milano: o la sinistra riusciva a coglierli, o era destinata alla sconfitta. Forse anche di questo, a dieci anni dalla morte di Craxi, sarebbe il caso di ragionare, più che dell' opportunità o meno di dedicargli una strada milanese.

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Franchi Paolo

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