mercoledì 28 gennaio 2009



Comunisti e Socialisti:
*Una guerra civile di soli sconfitti*


La violenza della discussione che si è aperta su un mio ricordo di Craxi mi ha fatto molto riflettere. Pensavo che la guerra civile che ha distrutto la sinistra in Italia si fosse oramai conclusa, e che non ci restasse che gironzolare tra le macerie con una qualche condivisa pietà. Invece continuiamo ad accapigliarci con furia, sebbene intorno a noi non si vedano che rovine, soldati in rotta, e generali senza esercito.

Mi sono venuti in mente altri ricordi: ciò che segue non è una spiegazione, ma un racconto (frammentario) della nostra brutta guerra civile.

Proprio nel giorno in cui Achille Occhetto era a Barcellona con Claudio Martelli per partecipare ad una riunione dell’Internazionale socialista, a Rimini, su un camper trasformato in ufficio e parcheggiato dietro il palazzo dei congressi, Bettino Craxi amabilmente chiacchierava con Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Era il 22 marzo 1990, il Pci non era ancora diventato Pds e il segretario del Psi aveva appena terminato la sua relazione alla Conferenza programmatica. Volle incontrare D’Alema e Veltroni, che non conosceva personalmente, perché gli sembravano i migliori della nuova generazione, e i più promettenti. Craxi avrà avuto molti difetti, ma non gli mancava il fiuto politico.

C’è però un doppio retroscena che merita di essere ricordato. Il camper di Craxi era un luogo-simbolo della Prima repubblica ormai al tramonto, perché l’anno prima, all’Ansaldo di Milano, proprio in quel camper Craxi e Forlani avevano siglato l’accordo di pentapartito in seguito noto come “Caf”. Occhetto, invitato da Craxi alla Conferenza di Rimini, subodorò una qualche trappola: “Mi farà salire sicuramente sul camper, ma io non voglio”. Trovò così la scusa della riunione di Barcellona, dove la sua presenza non era inizialmente prevista, e declinò l’invito, nonostante Craxi giungesse ad offrirgli un volo privato. Il buffo è che anche Martelli non avrebbe dovuto essere a Barcellona quel giorno: Craxi non vedeva di buon occhio la diplomazia parallela del suo delfino, e aveva riservato a sé ogni decisione riguardante l’Internazionale (fu in effetti lui, alla fine del ’91, a dare il via libera all’ingresso del Pds). L’aneddoto aiuta a capire quale groviglio politico, psicologico e umano governasse in quegli anni i rapporti fra il Pci-Pds e il Psi.

Ma è nel passato, nell’incomprensione radicale fra Berlinguer e Craxi che si trova la ragione dell’antisocialismo di Botteghe Oscure e dell’anticomunismo di via del Corso.

Berlinguer e Craxi non si amavano; probabilmente si detestavano. Ma non è (soltanto) con la psicologia che si spiega la politica, e il dissenso fra il ‘berlinguerismo’, cioè quella particolare declinazione del togliattismo che aveva nell’unità nazionale (il “compromesso storico”) e nel conservatorismo costituzionale il proprio baricentro, e il ‘craxismo’, che si proponeva invece come modernizzazione istituzionale (il presidenzialismo e la “Grande riforma”) e innovazione politica (l’alternativa), è un dissenso autentico e incolmabile, perché mette in campo due sinistre culturalmente, prima che politicamente, diverse.

Paradossalmente ma non troppo, il Pci di Berlinguer incarnava in quello scontro non il ‘comunismo’ ma la tradizione socialdemocratica classica (al netto, s’intende, dei suoi legami internazionali), mentre il Psi di Craxi rappresentava piuttosto il socialismo liberale che sarà poi la bandiera di Blair. Craxi, insomma, era oggettivamente “più avanti” di Berlinguer: ma la ferocia dello scontro che, dopo un anno di guerriglia ideologica a base di Proudhon e Gramsci, esplode violento nei giorni del rapimento Moro (marzo ’78), quando Craxi gioca la carta umanitaria in polemica aperta con l’asse Pci-Dc venutosi a cementare intorno al secondo governo Andreotti, e che si conclude con i fischi del congresso socialista di Verona a Berlinguer, un mese prima della sua morte (giugno ’84), lasciò ben poco spazio al dibattito culturale e alla discussione politica. Con la sola, breve eccezione del “patto di Frattocchie” (nel luglio del ’79 Craxi e Berlinguer tennero un lungo vertice nella scuola di partito del Pci), fra socialisti e comunisti la battaglia fu sempre cruenta e senza risparmio di colpi.

È vero: Craxi aveva esplicitamente dichiarato di voler fare come Mitterrand, cioè riequilibrare i rapporti di forza elettorali a favore del Psi, perché soltanto con una guida socialista – sosteneva – l’alternativa alla Dc sarebbe stata possibile. Ma il Pci non considerò mai la posizione di Craxi una semplice, ancorché impegnativa, sfida politica e culturale: la visse subito, e fino alla fine dei suoi giorni, come una minaccia reale alla propria stessa esistenza.

Gli appunti riservati di Tonino Tatò, braccio destro di Berlinguer, sono da questo punto di vista impressionanti: Craxi “è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, un bandito politico di alto livello” (luglio ’78), ha un modo di vedere la politica “di chiaro stampo mussolinesco, cioè narcisistico e intimidatorio” (marzo ’81), in lui c’è “un’assoluta mancanza di senso dello Stato” (maggio ’84).

Il partito che eredita Occhetto – di Natta non c’è molto da dire – ha dunque una pancia, prima ancora che una testa, violentemente anticraxiana. Tanto più che, quando Occhetto nel novembre ’89 avvia la “svolta” che porterà allo scioglimento del Pci, con una mano Craxi sembra aiutare i ‘cugini’ di Botteghe Oscure, ma con l’altra, direi per mancanza di coraggio politico più che per convinzione o per necessità, si tiene saldamente all’interno del bunker del pentapartito agonizzante.

La proposta dell’“unità socialista”, che Craxi lancia al Pci, in un contesto normale sarebbe apparsa la scelta più ovvia: poiché la scissione di Livorno era nata dalla Rivoluzione d’Ottobre, conclusasi l’esperienza sovietica poteva (e doveva) concludersi anche l’esperienza dei partiti comunisti europei. Finito il comunismo, si tornava tutti socialisti.

Ma il contesto dell’Italia post-’89 non è affatto normale: Craxi governa con Forlani e Andreotti, e la sua proposta non viene nemmeno presa in considerazione. “Unità socialista”, a Botteghe Oscure, significa annessione. Nessuno, neppure i “miglioristi” di Napolitano e Chiaromonte, ha il coraggio o la possibilità di andare a vedere le carte di Craxi.

Accade così che mentre in tutta l’Europa ex sovietica i partiti comunisti diventano “socialisti”, in Italia il Pci deve reinventarsi come Partito democratico, seppur “della sinistra”. Questa assurda contorsione linguistica e politica segna profondamente le origini della Quercia – il simbolo stesso, omaggio all’“albero della libertà” della Rivoluzione francese, cancella intenzionalmente ogni riferimento a centocinquant’anni di storia del socialismo –, e ne segnerà ogni giorno il destino sempre più affannato, fino alla fusione fredda nel gelido Partito democratico.

Ma torniamo al 1992. Tangentopoli – qualunque ne sia stata l’origine – fa precipitare definitivamente la situazione. Occhetto cavalca l’ondata giustizialista, sebbene anche il Pci sia lambito dalle inchieste, perché è convinto di trarne un vantaggio politico e perché non può, semplicemente non può, andare contro un’opinione pubblica di sinistra profondamente intrisa di berlinguerismo e venutasi distillando in un quindicennio di anticraxismo militante. Craxi invece, arroccato nella cittadella del Caf, di Tangentopoli è la vittima sacrificale, il ‘bersaglio grosso’.

Il 29 aprile del ’93 la Camera respinge l’autorizzazione a procedere per Craxi (da due mesi non più segretario del Psi) chiesta dalla Procura di Milano. Scoppia il finimondo. I ministri indicati da Occhetto (Augusto Barbera e Vincenzo Visco) si dimettono immediatamente dal neonato governo Ciampi, mentre a piazza Navona si svolge una manifestazione di protesta organizzata dal Pds. Craxi è al Raphael, la sua residenza romana: e qui affluiscono alcuni manifestanti. Intorno alle otto di sera il leader socialista esce dall’albergo e sale in macchina, investito da una pioggia di insulti e di monetine. Per qualcuno dei presenti, è la giusta vendetta dei fischi ricevuti da Berlinguer a Verona nove anni prima. Per altri, è il punto di non ritorno, oltrepassato il quale non ci sarebbe mai più stata, in Italia, una sinistra riformista unita e vincente.

Un anno dopo Craxi prende la strada di Hammamet. Morirà in esilio il 19 gennaio 2000. Tre giorni dopo, nella cattedrale di Tunisi, c’è anche Marco Minniti, braccio destro e sottosegretario dell’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. La famiglia non voleva rappresentanti del governo, e al termine di una lunga mediazione dell’ambasciatore d’Italia Minniti viene fatto sedere in settima fila. All’uscita dalla chiesa, di nuovo fischi e monetine. Ma il Pci e il Psi, oramai, da tempo non c’erano più.

Fabrizio Rondolino

4 commenti:

  1. Rondolino è un po' generoso a definire il Pci una socialdemocrazia classica negli anni 70 o 80, era piuttosto un partito post-togliattiano con tutte le ambiguità del caso, a rompere con il leninismo per primo nell'eurocomunismo fu Carrillo in Spagna spinto dalla innovazione culturale del Psoe di Gonzales... Però le radici del Pd sono davvero in quei passaggi, lo stesso D'Alema solo due anni fa al massimo ribadiva che "noi non siamo mai stati socialisti, ma gramsciani", ed è difficile dargli torto...
    l'Unità socialista purtroppo non passò, però è curioso, ed anche noto, che un solo esponente delle tre aree del Pci a cui Craxi inviò una lettera si presentò da Craxi per discuterne, e non furono i miglioristi ma Cossutta, che era interessato a creare una piccola corrente o area di minoranza su posizioni ideologiche autonome...
    comunque peccato che sia andata così!

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