venerdì 23 maggio 2008

"GIOVANNI FALCONE": UN RICORDO DI CLAUDIO MARTELLI - di Anna Germoni


"GIOVANNI FALCONE"
RICORDO DI
CLAUDIO MARTELLI

di Anna Germoni
23/05/2008

Ci vedevamo anche due o tre volte al giorno. Gli andavo incontro nel grande ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia. Ci sorridevamo. Giovanni sorrideva spesso, era, a Roma, lieto. Lo vedevo e lo sapevo più sereno che a Palermo.
Si sedeva davanti a me.

“Dunque…”. Pigliava fiato dal mantice generoso della sua vita e poi espirava. “Dunque…tre cose” oppure “Allora…due cose”.

Preciso, meticoloso ma appena lo stuzzicavo parlavamo di tutto. Cioè degli uomini.

Se non ci incontravamo per qualche giorno i “dunque”, gli “allora” e le “cose” da dirsi per decidere cosa fare si moltiplicavano.

Guidavamo la nostra conoscenza lasciandoci guidare, ciascuno, dall’altro nel suo campo: il mestiere di giudice, il mestiere di politico. Avevamo scommesso uno sull’altro. Presto la fiducia divenne amicizia.

Così potei scoprire in un grande investigatore italiano, un siciliano diverso dagli altri. Né Pirandello, né Sciascia. Semmai un personaggio che sarebbe piaciuto a Carlo Emilio Gadda.
Giovanni amava la vita negli aspetti in cui è più amabile: la conoscenza, l’amore, la socievolezza.
Aveva fortissimo i senso del dovere: laboriosità, autoeducazione, disciplina. E prudenza. Prudenza nel cercare, cioè controllo di sé e delle proprie fonti. Prudenza nell’agire, senza provocazioni e sfide inutili. Prudenza nel giudicare, rispettando la verità anche quando non ci serve o ci smentisce o smentisce un teorema comune. Era consapevole della complessità, sapeva assimilarne sempre di più, allargava i suoi orizzonti. Era noto e osannato in mezzo mondo – il giudice più famoso del mondo – restando un uomo che continuava a conoscere amare e lottare.
Uomini e donne comuni ma soprattutto gli esperti, i magistrati e i poliziotti nelle Americhe e in Giappone, in Australia, in Francia e in Germania sono pieni di ammirazione per ciò che ha fatto. Per la riuscita del suo coraggio.
In Italia molti, moltissimi, hanno condiviso questa ammirazione. Tanti hanno nutrito un orgoglio più forte e alcuni siciliani una più alta identità.
E si capisce, Giovanni Falcone ha reso nel mondo la lotta alla mafia più popolare della mafia.
Giovanni è l’antipadrino. L’eroe vero.
Falcone ha compiuto la sua missione. Perciò vivrà sempre perché a fronte delle immagini mistificate e priapesche del siciliano sbagliato è il siciliano giusto.
E’ l’esempio che ci mancava, e che mancava al mondo, dell’italiano e del siciliano che riscatta l’onore vero: l’onestà nella propria battaglia. Senza mai piegare l’onestà della condotta, la verità della ricerca, i diritti anche dei mafiosi al giusto fine di perseguirli.
Non accusava senza prove. E gli facevano orrore i demagoghi, i superficiali, i faziosi che piegavano la lotta alla mafia – che è una cosa seria, anzi serissima – alle loro ambizioni, ai loro interessi, ai loro giochi di potere. Vedeva nei polveroni politici, come nelle spettacolarizzazioni della mafia, innanzitutto il pericolo di perdere di vista il pericolo vero, quella cosa, “Cosa Nostra”.
Sapeva la ferocia e il calcolo freddo degli avversari, temeva gli avvelenatori e gli urlatori. Correggendo Sciascia senza tradirlo, potremmo dire che aborriva i “dilettanti dell’antimafia”, giacché era proprio sulla professionalità in questa lotta che puntava le nostre carta. Professionalità cioè preparazione, scrupolo, informazioni e poi dialogo, coordinamento, collaborazione.
A Roma si era rasserenato. Vedeva che la sua esperienza poteva diventare esperienza di tanti. Forse regola e legge: e forse questo è il massimo che un magistrato può dare alla propria comunità.
Rimaneva allegramente sorpreso quando gli raccontavo che un provvedimento che avevamo progettato era passato in una Commissione o in una aula parlamentare.
Forse era anche lui stupito che il Governo e la “politica” si fossero messi dalla parte giusta, decisamente, e che mi riuscisse di fare una strada, dei sentieri che lui aveva aperto.
Rivennero, e questa volta dall’opposizione le gelosie, le invidie, i sospetti, gli attacchi che dall’inizio venivano dal potere, dal conformismo scettico e rassegnato, da quelli che dicono sempre “il problema è un altro”.
Politici e magistrati che avevano sostenuto la sua lotta all’inizio lo accusarono di collaborare con il Governo, con la politica, con il potere. Nell’accecamento della fazione dubitarono della sua indipendenza e qualche mascalzone della sua coerenza.
Sono stati i momenti amari di quindici mesi indimenticabili.
Giovanni amava la vita e per svellere la sua hanno dovuto esplodere cinquecento chili di tritolo, tremila metri quadrati di terra, di strada, di acciaio e massacrare i compagni che lo scortavano con dedizione e con amicizia, uccidere sua moglie, ferire altri agenti e automobilisti italiani e stranieri. Per ucciderlo hanno dovuto uccidere e ferire altri uomini e donne, spezzare famiglie, amputare matrimoni, rendere orfani innocenti.
Per uccidere un uomo così la mafia ha dovuto sprigionare una tale quantità di male, di dolore, di sacrificio che l’Italia, gli italiani, i siciliani non le perdoneranno mai e ricorderanno per generazioni chi era nel giusto e chi ha maledetto la propria umanità infierendo su un giusto.
Ora Giovanni è davvero di tutti.
In proporzione a ciascuno per quanto lo ha amato, capito, sostenuto. Ma è di tutti, davvero di tutti nel mondo, per quello che ha fatto. E appartiene soprattutto alle nuove generazioni, perché è l’eroe della battaglia di sempre: del giusto contro l’ingiusto e della comunità contro il crimine.
Una battaglia che la fine di altri conflitti, o ideologici o militari, ha reso straordinariamente più chiara ed evidente.
Una battaglia che spetta a tutti noi continuare educando dentro di noi l’esempio della sua umana, formidabile testimonianza, facendo crescere “l’albero Falcone”.

Claudio Martelli
“L’albero Falcone”
Fondazione Giovanni e
Francesca Falcone
Palermo 1992

Anna Germoni

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