domenica 23 agosto 2009

*QUALE SOCIALISMO? QUATTRO IDEE PER UNA NUOVA BAD GODESBERG* - di Giorgio Ruffolo (Mondoperaio n.5/2009)

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Date: Fri, 7 Aug 2009 08:43:47 -0700 (PDT)
Subject: [PARTITO SOCIALISTA - SOCIALISMO MACERATESE] QUALE
SOCIALISMO? QUATTRO IDEE P...
To: ivocostamagna@gmail.com

QUALE SOCIALISMO? QUATTRO IDEE
PER UNA NUOVA BAD GODESBERG

di Giorgio Ruffolo
(da "Mondoperaio" n. 5/2009)


La sconfitta socialista alle elezioni europee non appartiene alla
categoria delle normali oscillazioni politiche. Essa segna la rottura
di un ciclo storico e richiede un'analisi che investa gli eventi
dell'ultimo trentennio. Non credo che il socialismo, grande movimento
storico legato a imprescindibili esigenze di giustizia, sia stato
seppellito da una sconfitta elettorale, per quanto clamorosa. La storia
del socialismo è piena di annunci mortuari smentiti. Neppure il
fascismo ce l'ha fatta. Però le elezioni hanno decretato la fine di una
socialdemocrazia appannata e sconclusionata. Può apparire paradossale
che le elezioni non abbiano penalizzato la destra, che per venti anni
si è identificata con la sregolatezza responsabile dell'attuale marasma
economico, e che oggi sembra diventata keynesiana e statalista; e
abbiano invece devastato la sua antagonista storica. Ma non lo è per
due ragioni. Innanzitutto la destra non è diventata affatto statalista,
ma pretende solo che sia lo Stato a pagare i conti della crisi per poi
ritirarsi rapidamente dalla scena. Inoltre la socialdemocrazia, in
tutti questi anni, non è stata affatto antagonista del liberismo, ma ne
ha solo praticato una versione debole, propriamente "post-socialista",
come il blairismo. Per di più alla globalizzazione economica la
socialdemocrazia non ha contrapposto quel rafforzamento del potere
politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte
integrazione europea. Al contrario, si è chiusa nel socialnazionalismo
(l'espressione, volutamente provocatoria, è di Nino Andreatta), un
terreno sul quale la destra è imbattibile. I socialisti hanno perduto
un'occasione unica di costruire un'Europa unita e riformista quando
erano al governo in quasi tutti i paesi europei. Un'Europa diversa da
quella creatura burocratica e diplomatica che non è fatta certo per
accendere i cuori. Un'Europa che si riconosca in un modello economico
integrato e in un modello sociale avanzato. Opporre al nazionalismo
politico e alla globalizzazione economica un'Europa del benessere,
nuovo soggetto della scena mondiale, questa sarebbe stata la risposta
efficace alla deriva liberista. Quell'occasione è stata perduta. E ora
in Europa trionfano i nazionalismi, riemerge il razzismo, e il conto
della crisi è posto sulle spalle dei contribuenti. C'è da chiedersi
allora: del socialismo, que reste et-il? Questo sarebbe il momento di
una nuova Bad Godesberg: di un ripensamento fondamentale di quelle che
sono state per una fase storica gloriosa le ragioni del "vero
socialismo reale". Non si tratta ovviamente di tornare indietro, in un
mondo radicalmente cambiato. Si tratta di riconoscere le correnti
pesanti che attraversano la nostra storia, per domandarsi in quale modo
una politica ispirata ai valori tradizionali della sinistra possa
piegarne il corso verso una società più libera e più giusta. Questa è
l'essenza concreta del riformismo. Per non cavarmela con i soliti
auspici retorici (appunto: più libera, più giusta) provo a indicare le
linee fondamentali di una ricerca e rielaborazione teorica e politica.
Che poi all'esito di questa rielaborazione si debba ancora dare il nome
di socialismo è problema che può essere rinviato, come un indice, alla
fine dell'opera. Penso a quattro linee fondamentali di ricerca.

La prima riguarda la governance mondiale.

Non esiste e non è realisticamente proponibile un governo mondiale. Ma
esiste un problema di governabilità (governance). L'attuale
configurazione del "disordine mondiale" è l'esito di un lento processo
di disgregazione che si è andato sviluppando a partire dagli accordi di
Bretton Woods: e cioè dall'ultimo grande tentativo di costruire, sul
terreno economico, un sistema di ordine mondiale. Quel sistema è stato
travolto, ma non sostituito. Resta implicito il presupposto di quel
sistema: l'egemonia americana, priva però delle regole che avrebbero
dovuto assicurarne la responsabilità. Ma è proprio quell'egemonia che è
messa in forse dall'emergere di nuove grandi potenze. Questo è un
aspetto dell'attuale disordine. Un altro è il varco che si è aperto tra
politica ed economia: tra l'interdipendenza dell'economia, sancita
dalla globalizzazione, e cioè soprattutto dalla liberazione dei
movimenti internazionali di capitale, e le capacità di controllo di una
politica che resta confinata essenzialmente nell'ambito delle sovranità
nazionali. L'attuale crisi, nella quale siamo tuttora immersi, è in
grande parte conseguenza di questo vuoto, e della pretesa che esso
potesse essere colmato da una autoregolazione dei mercati: degli scambi
e dei cambi. Se una nuova grande potenza come la Cina richiama
addirittura la necessità di affrontare il tema di una moneta mondiale
"responsabile", è segno che l'attuale condizione si sta avvicinando ai
limiti dell'insostenibilità economica e politica. Da parte dei partiti
socialisti non c'è stata finora una parola su questo problema
formidabile, che non è neppure "tematizzato" nei loro programmi e nei
loro congressi. Il loro quadro concettuale resta quello statale e
nazionale. La loro risposta alla globalizzazione è la loro incapacità
di darne una.

La seconda linea di ricerca riguarda il problema emerso e ingigantito
nell'ultimo mezzo secolo: quello della sostenibilità ambientale ed
ecologica.

Esso è evocato, più per un omaggio alla moda che per intima
convinzione, come esigenza di scoraggiamento delle tecnologie
inquinanti e di incoraggiamento delle cosiddette tecnologie "pulite".
Si evita invece accuratamente il centro del problema: la
insostenibilità storica di una crescita continua , ad interessi
composti, considerata come condizione normale e irrinunciabile
dell'economia. Il problema, non del benessere, ma della sopravvivenza
dell'umanità è legato al passaggio da una economia della crescita
quantitativa ad una economia stabilizzata quanto all'impiego di risorse
non rinnovabili e concentrata sul loro sviluppo qualitativo. Ciò
comporta la necessità di abbandonare la pretesa di misurare il
progresso dell'umanità con l'aumento indefinito della sua statura, e di
definire esplicitamente indici di progresso autentico, economico,
sociale e culturale, da perseguire. Da parte socialista, sempre a
livello delle enunciazioni politiche e programmatiche, non c'è stata
una esplicita denuncia della "pirlandizzazione" dell'economia del
benessere, e una indicazione di altri traguardi qualitativi
all'economia.

La terza linea di ricerca riguarda quello che dovrebbe essere il cuore
del messaggio socialista: l'eguaglianza (ricordo la lezione di Bobbio)
o, meglio, la lotta contro le diseguaglianze.

Sembra che i partiti socialisti si siano convinti del rozzo slogan
convenzionale della destra - per distribuire occorre prima produrre -
quando appare sempre più evidente dagli eventi che ci hanno precipitato
in questa ultima crisi che essi sono stati generati da una sproporzione
distributiva, irresponsabilmente compensata con un ricorso illimitato
all'indebitamento, che produce soltanto nuovi debiti. Non si produce
niente a partire dalla regola di Trilussa: due polli a me, nessuno a
te, eguale un pollo statistico a testa. La distribuzione iniqua non
genera la corsa virtuosamente competitiva di tutti, ma la progressiva
secessione dei pochi.

La quarta linea della ricerca mi pare la più importante perché investe
la domanda che sta al fondo delle altre tre: a quale scopo? A quale
scopo la governance, la produzione, la distribuzione?

Il senso di questa domanda non è una predica, ma la concretissima
constatazione della incoerenza fondamentale della strategia della
mercatizzazione, che sta alla base del vangelo liberista: la sua
autodistruzione. Richiamo una banalità: le regole del gioco non fanno
parte del gioco. Le decisioni dell'arbitro sul campo di calcio non
possono (non dovrebbero!) essere comprate e vendute, pena
l'inconsistenza della partita. Le sentenze dei giudici non possono (non
dovrebbero!) essere comprate e vendute, pena l'irrilevanza dei
processi. I voti dei cittadini e dei loro rappresentanti non possono
(non dovrebbero!) essere comprati e venduti, pena l'impraticabilità
della democrazia. Lo stesso vale per il credito. Esso è legato a un
confronto oggettivo e reale tra la sua domanda e la sua offerta (così
almeno ci insegnavano i testi). Ciò costituisce la sua regola e il suo
freno. Se invece diventa un prodotto che si può comprare e vendere sul
mercato, perde la sua qualità di regola e diventa un bene da
massimizzare. Non è proprio questo che è successo quando le ipoteche
sui prestiti sono diventate titoli da scambiare sul mercato? E' venuto
a mancare ogni freno alla loro emissione. La regola è entrata nel gioco
che doveva regolare. Si spiega così come l'autoregolazione divenga
sregolatezza. I comportamenti che obbediscono a regole oggettive sono
di carattere compensativo: se aumenta la domanda di titolo ne sale il
prezzo che ne frena la domanda. Ma se al tempo stesso c'è chi offre
titoli rappresentativi di crediti che possono essere comprati, la
domanda può aumentare e il mercato diventa cumulativo, esplosivo, senza
freni. E' ciò che è in effetti avvenuto. La stessa cosa si può dire per
il rischio. Se anche il rischio diventa un oggetto da comprare e
vendere, la domanda di protezione dal rischio diventa facilmente
domanda di moltiplicazione dei rischi. In altri termini, si innescano
spirali autoalimentate. Si scatena da parte delle banche una caccia ai
clienti cui vengono offerti prestiti a condizioni irrisorie; e le carte
di credito sono offerte in garanzia per la concessione di nuovi mutui:
un credito ne garantisce un altro. A un certo punto, la cuccagna
finisce e il gioco si rovescia. Mi domando anche qui se non ci sia
stata, da parte degli esponenti più rappresentativi dei partiti
socialisti, una resa a un pensiero falso e bugiardo, che identifica il
valore del denaro come valore tout court. Del resto, se è vero che nel
tempo in cui risiedeva al numero 10 di Downing Street la coppia Blair
si è impegnata in mutui immobiliari per 4 milioni di sterline, sarebbe
stato ingenuo pretendere che egli ponesse, come segretario dell'antico
e glorioso partito laburista, un argine economico e morale alla
tempesta che stava per travolgerci.

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Postato da Webmaster su PARTITO SOCIALISTA - SOCIALISMO MACERATESE il
8/07/2009 05:25:00 PM


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Ivo Costamagna
--
ps-macerata.blogspot.com

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