lunedì 26 luglio 2010

*BOBO CRAXI : PREPARARE L'ALTERNATIVA SOCIALISTA E RIFORMISTA*

BOBO CRAXI : PREPARARE L'ALTERNATIVA SOCIALISTA E RIFORMISTA


il Congresso socialista si svolge in un momento delicato per il Paese,
complicato per la sinistra, difficile per i socialisti. Eppure, è mia
convinzione, e mi sembra, dalle prime battute, anche quella del
Congresso, che nonostante la notte difficile che attraversiamo da
diverso tempo, esiste, per noi socialisti, la nostra storia, le nostre
idee rinnovate e riqualificate, non soltanto lo spazio politico ma il
posto di responsabilità che ci spetta nella vita italiana per cambiare
lo stato delle cose, per sospingere l'Italia fuori da questa lunga
crisi, per contribuire a stabilizzare la vita democratica in un senso
più compiuto e moderno, restituendo alla politica il suo ruolo
tradizionale attraverso un consenso più largo e motivato fra i
cittadini.

Ci attende un duro lavoro, di riflessione e di azione politica, ma
traggo sempre di più la convinzione, dalla crisi del sistema politico
italiano e dall'incapacità ormai quasi patologica di riuscire a
governare le nuove complesse sfide del nostro tempo, che solo una
forza di antiche tradizioni che ha maturato l'esperienza delle
molteplici sconfitte e della solitudine politica possa contribuire a
restituire alla democrazia e alla sinistra italiana uno slancio vitale
fondato sulla solida radice costituita dalla lunga tradizione
socialista italiana. Noi, per parte nostra, dobbiamo contribuire a
riscoprire questa possibilità sapendo partorire nuove idee, nuovi
presupposti politici e programmatici che ridiano slancio non solo al
socialismo democratico, ma all'intera sinistra presa nel suo insieme.
Riorganizzare una posizione politica è indispensabile per rigenerare
anche una forza organizzata. E se il 'primum vivere' è stata la
condizione indispensabile e necessaria nella storia più recente dei
socialisti italiani, oggi, ripensare alla nostra funzione politica, al
rinnovamento e all'adeguamento delle nostre idee diventa il punto e la
base di ripartenza dell'azione politica dei socialisti italiani.

Occorre sostituire al proverbiale "chi eravamo" o, peggio, "come
eravamo" un necessario "chi siamo?" e in che modo intendiamo e
pensiamo possibile fare di più e meglio per l'Italia di oggi,
sfuggendo la retorica delle diagnosi impietose che non lasciano spazio
a un destino migliore e a una speranza, ma contribuendo a migliorare
la qualità della politica, dei suoi programmi, dei suoi obiettivi e
dei suoi sinceri convincimenti.

Noi siamo agganciati al destino della vecchia Europa. Ed è al modello
delle esperienze invecchiate, ma presenti, delle socialdemocrazie
europee rinnovate che si riferisce il nostro orizzonte.

Alla fine degli anni '80 e all'inizio dei '90 del secolo scorso, tutta
l'esperienza della socialdemocrazia si è rivolta alla ricerca di un
adeguamento spinto ai confini del superamento delle vetuste esperienze
ideologiche del socialismo, puntando a una possibile via di mezzo o
'terza via' che fosse sintesi del pensiero socialista e liberale.

Il presupposto nasceva non dall'abbandono del campo tradizionale delle
tutele della classe lavoratrice, ma dallo sviluppo e dal cambiamento
che ne è conseguito di questo ceto, delle nuove figure professionali
che sono avanzate.

Oggi, in tempi post-ideologici, i ceti più deboli abbandonano il
terreno della sinistra, sospinti dal richiamo del mercato. E la paura
e l'insicurezza trovano un porto insicuro, ma certo, nel grande bacino
accogliente della destra conservatrice, populista, paternalista.

Oggi, lo sforzo che viene richiesto a chi si dichiara di sinistra è
quello di svolgere sino in fondo il compito della sinistra, che resta
quello di tutela e salvaguardia delle conquiste sociali, di tutela non
dei ceti improduttivi e parassitari, ma delle vecchie e nuove povertà,
che sono riaffiorate con evidenza nel corso della recente crisi
finanziaria mondiale.

C'è un problema di moralità del mercato, c'è un problema di equità e
c'è una nuova grande richiesta di giustizia sociale, o di giustizia in
senso lato.

C'è un problema di lotta alle iniquità nel nostro Paese, ma c'è e
resta sullo sfondo anche un problema di riequilibrio e di riduzione
del divario della distanza economica sociale fra il nord ed il sud del
mondo.

C'è un problema che riguarda la nostra capacità di ripensare il nostro
modello di sviluppo, la possibilità di compenetrare la necessità delle
società avanzate di mantenere il loro benessere e, al contempo, di
consentire l'avanzamento e il progresso dei Paesi terzi, che rischia
di essere un utopìa in presenza di risorse scarse che non basteranno
per tutti .

E se trionfa l'economia muore, come sta morendo, la società, la
qualità della vita a cui siamo stati abituati, sommersi dall'evidente
sproporzionato fabbisogno di beni non indispensabili, di modelli
sociali non più sostenibili, di società frantumate e parcellizzate non
più governabili da sistemi e schemi rigidi, immodificabili e
immutabili.

L'Italia, nella sua crisi, ha le straordinarie risorse per invertire
la logica e la tendenza al 'declinismo' votato all'egoismo di uno
sviluppo che rinchiude tanti ceti sociali nella paura e nel rancore.

Della paura e della speranza, tante volte declamate dal nostro
ministro dell'Economia, resta solo la paura senza speranza: la paura
che egli stesso alimenta nascondendo le verità della nostra situazione
e dalle punizioni che ha inteso infliggere ora ai ceti medi, ora agli
amministratori inadempienti, favorendo una inutile colpevolizzazione
dal vago sapore razzista nei confronti delle regioni del sud.

Tacere degli effetti disastrosi che la pandemia economica ha già
provocato equivale a una colpevole negligenza dimostrata nelle
occasioni di catastrofi naturali. La classe dirigente italiana,
certamente, non è la sola protagonista di questa irresponsabile
condotta: la crisi mondiale esigeva risposte mondiali e l'ultima
riunione del cosiddetto G20, nonostante tutte le dichiarazioni
ipocrite, non è servita a nulla.

Le banche, le grandi protagoniste negative di questa catastrofe,
potranno continuare ad agire indisturbate, senza regole, speculando
come è avvenuto sino a oggi.

I 'grandi' della Terra, rifiutando imposizioni sul loro tasso di
cambio, sulla loro politica di esportazione e sul controllo delle loro
piazze finanziarie, hanno ottenuto di poter crescere e prosperare come
prima, mentre gli europei, deboli, si sono lasciati imporre regole
contabili che strozzeranno le loro economie, riducendo la loro
capacità di ripresa, eventualità che potrebbe minare tutti gli sforzi
di riduzione dei deficit di bilancio.

Un'altra crisi finanziaria è dietro l'angolo e la democrazia deve
cedere ancora una volta il passo al mercato. Soprattutto, a un mercato
senza regole e senza scrupoli: se fossimo in un Paese responsabile,
nell'agenda di Governo entrerebbe, come priorità, assieme alla
necessaria revisione dei conti pubblici, dei suoi sprechi e delle sue
illogicità, anche la nostra visione futura dello sviluppo,
dell'allargamento del nostro orizzonte economico e sociale, sapendoci
aprire e sviluppando la nostra crescita , il nostro sapere, la nostra
flessibilità produttiva verso i mercati e gli orizzonti a noi più
affini. Riscopriremmo il vanto storico dell'Italia, delle sue mille
agricolture oggi cancellate da una standardizzazione uniforme e da
un'industria alimentare che deprime la necessaria valorizzazione della
biodiversità, del recupero del gusto e della qualità nella produzione
dei beni di consumo, nel presidio del territorio e nella cura del
paesaggio.

Man mano che gli oggetti prodotti industrialmente scadranno ai nostri
occhi, il valore andrà a rifugiarsi in tutto ciò che non è
riproducibile industrialmente: la bellezza, l'arte, la natura
incontaminata, i monumenti del passato, il cibo genuino, la tradizione
e la stessa convivialità.

Con il nostro immenso patrimonio artistico, culturale e letterario,
l'Italia ambirebbe a essere l'Atene dei giorni nostri.

Il nostro 'petrolio' risiede nella nostra intelligenza e nei nostri
tesori naturali e artistici. Ma l'impoverimento e l'imbarbarimento
della nostra attuale civiltà, lo scadimento del livello dell'offerta
culturale, l'inadeguatezza delle classi dirigenti che hanno governato
per un quindicennio il nostro Paese hanno consegnato, a noi e alle
future generazioni, solo la paura, cancellando la possibilità della
speranza.

E come è possibile autorizzare la speranza in un Paese in cui un
giovane su tre non lavora (e non studia) e otto su dieci sono presenti
sul mercato del lavoro con contratti diversi e mai a tempo
determinato? Dove soltanto 1800 ragazzi hanno avuto accesso al bonus
per i precari concesso dal Governo? Dove le donne divenute mamme hanno
dovuto abbandonare il loro lavoro a tempo determinato volontariamente?
Dove, e lo scrivono e lo dicono in pochi, molti giovani di Pomigliano
hanno votato, a stragrande maggioranza, per un 'no' non al lavoro, ma
a una tipologia contrattuale che consumava decenni di relazioni
sindacali in nome di una competitività che, stringi stringi, porta
alla fame e a una nuova odiosa forma di sfruttamento.

Ho sentito che qualcuno si è permesso un paragone azzardato,
improprio, fra il referendum di Pomigliano e quello sulla scala
mobile. Quello dell'84 fu un accordo relativo a una manovra economica
di Governo che non ledeva le relazioni sindacali e sviluppava una
nuova politica del costo del lavoro. Qui, in assenza di Governo, si è
lasciata dilagare una concezione cinese o giapponese delle relazioni
sindacali. Altro che Festa degli innamorati di San Valentino: qui ci
troviamo di fronte a una strage.

La crisi economica si accompagna alla crisi politica. Non è la crisi
di questa maggioranza politica: quella c'è, è evidente, e senza la
corazza rigida del bipolarismo coatto avrebbe già avuto uno sbocco
procedurale obbligato.

La frantumazione del Partito di maggioranza relativa e il ricorso
ossessivo alla fiducia parlamentare hanno trasformato l'azione di
questo Governo, né più e né meno in quella di un esecutivo che governa
per ordinaria amministrazione. La crisi è nella politica che non c'è,
questione che oramai, con colpevole ritardo, denunciano anche gli
opinionisti più illustri sui giornali più autorevoli.

La denuncia arriva con colpevole ritardo perché sono gli stessi
giornali che, per anni, hanno criminalizzato e colpevolizzato la
società organica costituita dalla sistematica occupazione dei Partiti
della società e accusato il sistema delle regole elettorali di essere
inadeguato ai nuovi bisogni.

Oggi, devono fare marcia indietro: la scomparsa dei Partiti nella
società italiana non solo ha impoverito la nostra democrazia, ma ha
impedito un flusso di ricambio di una classe dirigente che fosse
formata entro un perimetro di regole, interne ed esterne, accettabili
perché fondate sul patto fra gli iscritti, sulla fedeltà alle idee, ai
valori, ai programmi.

A questa incapacità di costruire il nuovo, a Costituzione invariata (e
bene facciamo noi a insistere sulla necessità di dare vita a una nuova
Assemblea Costituente che ci porti sul serio nella terza Repubblica)
si sono aggiunte le degenerazioni del nuovo sistema, che hanno pervaso
la società politica e la società cosiddetta civile.

"La malinconica conclusione", scrive Sergio romano, "è che
Tangentopoli non è finita, perché nessuno dei tre grandi protagonisti
della politica italiana, Governo, magistratura e opposizione, fa il
suo mestiere. Il Governo perché si difende con mezzi impropri e
fornisce degli alibi alla magistratura. Quest'ultima sembra avere
fatto della lotta contro Berlusconi la ragione della propria
esistenza, mentre l'opposizione, rinunciando ad avere una politica
giudiziaria convincente, la lascia fare ai magistrati".

Ai socialisti resta l'amara consolazione di aver sempre segnalato,
inascoltati, i rischi dell'avventura e della conseguente paralisi che
avrebbe creato un cambiamento che non si fondasse su basi solide e
convincenti.

Per molti di noi sono stati anni di battaglia vera, condotta anche
nella consapevolezza delle nostre responsabilità, dei nostri ritardi e
dei nostri errori. Ma quando vediamo cadere uno dopo l'altro i miti
della cosiddetta diversità morale che appartenevano al mondo comunista
e ai suoi epigoni, quando vediamo che l'eroe di 'Mani Pulite' come
Paperon de' Paperoni fa il bagno nei suoi rimborsi elettorali e nelle
sedi procurate da Anemone, ci vien proprio da pensare che con noi la
Storia, che fu ingiusta, ci riconsegna, oggi, una giusta ragione.

Questa giustificata ragione, tuttavia, non è sufficiente per fare una
politica. Nel giro di pochi anni, dall'euforia di una ritrovata unità
e dal ritrovato ruolo di una certa consistenza e di responsabilità
politica al sostegno e nel Governo del Paese siamo passati a una
condizione mai conosciuta nella nostra storia, fatta salva la
parentesi del regime fascista, di forza extra-istituzionale. Dalle
indebite euforie del ritrovato protagonismo politico siamo passati a
una lenta erosione del nostro elettorato, ad abbandoni politici in
qualche caso molto poco nobili, a una vita difficile e travagliata.
Non tutto è andato per il meglio: si poteva e si può sempre fare di
più. Ma anche la scomparsa o la debolezza del Partito socialista in
Italia non è solo la responsabilità di chi il Partito lo anima, ma
anche la spia del decadimento culturale del nostro Paese.

I socialisti che sono andati a cercar fortuna altrove si trovano a
dover far fronte al declino dell'ipotesi bipartitica che è stata messa
in campo.

C'è poco da fare, i socialisti che stanno nel Popolo delle Libertà
incominciano a farmi pena: qual è il senso socialista della loro
missione? E quali posizioni politiche sono costretti a sostenere da
anni, in coerenza con la nostra passata esperienza?

Non è una questione del 'mantra geometrico' che spesso ripeteva il
caro amico Villetti: "I socialisti non possono che stare a sinistra".
Il problema è che i socialisti non possono stare con chi rappresenta
oggi, nel Paese, non più la medicina, ma la malattia da cui dobbiamo
guarire.

Come?

Essere protagonisti dell'alternativa senza essere velleitari significa
non rinunciare né alle esperienze delle alleanze maturate in questi
anni ma neanche mettersi in caccia per costruirne delle nuove.

Il partito democratico di bersani non è quello di Veltroni, ma il suo
spostamento su posizioni neo-laburiste apre si un terreno di confronto
, ma chiude uno spazio politico di autonomia socialista.

Ed è altronde la questione socialista irrisolta ed indiscussa che
consente la doppiezza antica di una piena adesione al manifesto dei
principi ed ora delle idee socialiste in Europa ed un rifiuto della
dimensione identitaria e politica in Italia, un rifiuto che spesso si
trasforma in un fastidio ed un'allergia antica dura a far passare nel
corpo militante ed anche in parte di quello dirigente.

Io vedo un partito Socialista alleato al Pd che non sta né alla sua
destra né tantomeno alla sua sinistra ma più avanti di lui e che
compete nella elaborazione delle idee e dei programmi,
nell'impostazione politica che è apparsa troppo spesso schiacciata ed
anchilosata dinnanzi alle offensive del Partito di Repubblica, al
Partito Di Di Pietro e di tutti i miasmi ai limiti dell'eversione che
abitano la costellazione dell'opposizione di sinistra a Berlusconi.
Noi rimaniamo fermi nella nostra impostazione politica identitaria ma
non immobili. Perché dobbiamo essere convinti che il baricentro
della politica dei prossimi anni ci incoraggia a pensare ed a
immaginare che i nuovi movimenti nella società si riapproprieranno
delle idee del novecento che ancora circolano in europa Questo
significa che il dialogo, il confronto ed anche la convergenza anche
con altre esperienze della galassia politica che si oppone al centro
destra.

Ognuno predisponga la propria task force politica e programmatica per
costruire una alternativa che non si realizza attraverso solo
attraverso le alchimie tattiche e le alleanze ma attraverso una lunga
seria riflessione politica e programmatica.

Non dobbiamo certo scoraggiare chi si è messo in marcia o chi ha
approntato le sue fabbriche di idee quando esse sono realizzabili.

Io non sento affatto il bisogno di sottovalutare l'impatto politico
che ha suscitato anche la parabola di niki Vendola, non sento il
bisogno di costruire una nuova forza politica con lui ed i suoi
compagni, ma vedo che in quell'esperienza brilla ancora la passione
politica civile autentica, una ricerca del senso della missione della
politica , e in questi tempi così aridi non è poco.

Costruire un'alternativa laica , socialista , riformista vuol dire che
il partito socialista non cerca casa né si crogiuola nell'orgoglio del
suo passato chiuso nella sua solitudine.

Ma che il PSI può e deve ridiventare una casa aperta al confronto
politico e programmatico , aperta al dialogo con tutti coloro che
definendosi socialisti anche quando sbarcati altrove intendono
restituire il ruolo politico che ci spetta nel futuro democratico
dell'Italia.

Nella nuova alleanza riformista non c'è posto per i perditempo e per
chi è alla ricerca di una ribalta. Il destino dell'Italia ci riguarda
e noi socialisti dobbiamo essere nuovamente all'altezza del compito
che ci ha assegnato la nostra storia.

Ho concluso.

Qualche settimana fa sono stato invitato

Assieme a Nencini a salemi invitati dall'amico Sgarbi a celebrare la
nascita della prima "Capitale d'Italia" proclamata dal generale
Garibaldi.

Mi ha fatto piacere esserci e che fossimo gli unici uomini politici
eredi della tradizione risorgimentale e repubblica ad essere invitati.
( detaglio che non sarà sfuggito a Riccardo che è un brillante
saggista storico).

Il mio pensiero è corso quando risalii la valle del belice con mio
padre Bettino craxi che di Garibaldi era un cultore e che dell'Unità
d'Italia fu uno strenuo difensore.

Ho avuto modo di ringraziare il presidente Napolitano per la sua
lettera ricca di significato politico inviata in occasione del decimo
anniversario della scomparsa.

Voglio cogliere l'occasione per ringraziare il segretario ed il
Congresso tutto per quella commovente visita al cimitero di Hammamet.

E per quelle bandiere rosse innalzate e riconosciute come le "bandiere
del Partito di mio marito" da mia madre Anna.

Il Socialismo democratico e riformista non è solo una bandiera da
sventolare o un'antica fede da conservare. Ma un metodo, una dottrina
, una realtà che vive e deve rivivere nella realtà di oggi, questo
naturalmente continua a dipendere da noi.

Il Congresso di Perugia indica che stiamo su una buona strada.

On. BOBO CRAXI

1 commento:

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