domenica 5 settembre 2010

*La lotta di classe è carne e sangue della Democrazia*

La lotta di classe è carne e sangue della Democrazia


di Giuseppe Giudice

Si affastellano dichiarazioni sulla presunta fine della lotta di classe: ultimo Marchionne (che sta conducendo lui una terribile guerra di classe contro i lavoratori), preceduto da facce di bronzo come Tremonti, Sacconi ed altri personaggi ameni.

Ma anche nel presunto centrosinistra da diverso tempo che si sono levate voci che proclamavano la fine della lotta di classe: il più noto e plateale è stato Veltroni che sul palco fece tenere per mano (nella sciagurata campagna elettorale del 2008) Nerozzi già segretario conf. Della CGIL (passato in un lampo da SD al PD) e Galearo, già falco confindustriale candidato (con Nerozzi) per il PD in una circoscrizione veneta.

Che dire? Che c’è molta confusione in giro da quando nella sinistra (o di quel che resta) è stato espulso il socialismo.

In verità questa espulsione del socialismo e dell’idea di conflitto sociale è imputabile anche a molti che sono stati nel PSI: da Martelli, a De Michelis , ad Amato fino a Boselli e Nencini. Ma è con la nomenclatura postcomunista, da D’Alema, Veltroni e Bersani che si compie il definitivo affossamento di tale concetto in nome di una fuorviante concezione della modernità.

Mettiamo allora un po’ d’ordine. I socialisti riformisti veri come Turati e Matteotti vedevano nella lotta di classe un fattore propulsivo decisivo della evoluzione sociale. Idem per Carlo Rosselli.

In particolare Giacomo Matteotti, nel 1922, sottolineava la differenza tra il concetto socialista della lotta di classe e quello comunista-bolscevico di “guerra di classe”. Il primo indicava lo sforzo dei lavoratori per la propria emancipazione e per la conquista dei diritti sociali, il secondo una esasperazione violenta del concetto di antagonismo rivolto alla soppressione degli avversari. La lotta di classe, per Matteotti, aveva il suo quadro naturale di espressione nella democrazia, la guerra di classe si muoveva invece fuori e contro la democrazia. Rosselli, qualche anno più tardi, esprimeva concetti similari.

Il concetto di lotta di classe ha certamente subito una deformazione profonda nel comunismo della III Internazionale. Essa ha lì assunto (grazie a Lenin ed a Luckacs) una connotazione astrattamente ideologica e a tratti metafisica, fuori dalla concreta storicità del concetto. “Il punto di vista di classe” rappresenta allora il punto di vista delle avanguardie , e del partito, e non i bisogni ed i concreti interessi dei lavoratori. Questa visione è tutta volta a giustificare il ruolo di avanguardia, depositaria della coscienza di classe, da parte del partito: la cui burocrazia poi, una volta conquistato il potere, diventa nuova classe dominante.

La socialdemocrazia ha invece concepito e sviluppato l’idea di conflitto sociale quale elemento essenziale della democrazia moderna.

La stessa socialdemocrazia tedesca che al congresso di Bad Godesberg cambia la sua definizione da partito di classe a partito di popolo, in quello stesso programma concepisce la classe operaia comunque quale referente sociale privilegiato. Willi Brandt a chi gli chiedeva di costruire una componente operaia nella SPD rispondeva che non ce n’era alcun bisogno perché la classe operaia rappresentava il cuore pulsante della socialdemocrazia.

Ora negli anni il mondo del lavoro è profondamente mutato (e molte mutazioni sono state in peggio), ma il tema dell’emancipazione del lavoro e quindi della lotta di classe regolata democraticamente resta centrale nelle nostre società. Più degli anni 70. Nel momento in cui il capitalismo liberista nella sua fase più acuta (il “turbo-capitalismo”) si è lanciato con la ferocia di uno squalo contro il welfare ed i diritti sociali e del lavoro, occorre una ripresa in grande stile del conflitto sociale che deve essere regolato ed orientato da un progetto politico forte, affinchè sia in grado di incidere strutturalmente e non si disperda in forme irrazionali.

Del resto la lotta di classe è stata un fattore di evoluzione ed innovazione nel capitalismo stesso. La risposta alla lotta operaia ha costretto il capitalismo nel 900 ad affrontare sfide che gli hanno consentito un processo evolutivo.

La svolta negativa è agli inizi degli anni 80, quando il capitalismo utilizza le innovazioni tecnologiche per modificare radicalmente i rapporti di forza capitale-lavoro e rompere il compromesso sociale. E’ questo il fattore che determina la vittoria del capitale sul lavoro, non certo il crollo del muro di Berlino come qualche nostalgico epatico sostiene. E’ che la sinistra non seppe comprendere, in Europa, la portata e la ricaduta sociale dei processi di innovazione per governarli da sinistra ed in senso socialista ed uscire “da sinistra” e non da destra dal fordismo.

Ma la guerra di classe del capitale contro il lavoro ha provocato una delle crisi più devastanti del capitalismo. Questo spiega molto bene che il capitalismo senza antagonismo e conflitto tende ad autodistruggersi. Del resto sia Ricardo che Marx avevano ben messo in evidenza il carattere intrinsecamente “antagonistico” del modo di produzione borghese.

Ma questo significa anche che dalla crisi non si può uscire senza una alternativa organica al modello liberista. Non si può uscirne senza un nuovo progetto socialista e senza un nuovo e più avanzato compromesso sociale rispetto a quello del 900. Senza socialismo non c’è futuro per la sinistra.

PEPPE GIUDICE





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