venerdì 3 giugno 2011

Il ruolo dei socialisti nella Repubblica ed il socialismo democratico

di Giuseppe Giudice

«Per lungo tempo si è cercato di minimizzare e sottovalutare il ruolo estremamente importante che i socialisti e la loro cultura politica hanno svolto durante il periodo della democrazia repubblicana.

Questo saggio non è finalizzato a rivendicare una sorta di integralismo socialista che a sua volta sottovaluta il ruolo e le funzioni degli altri, ma solo a combattere i gravi effetti della “damnatio” memoriae” successiva all’antipolitica degli anni '90 (ed in qualche modo preceduta prima dallo sviluppo di forti antipatie culturali verso il socialismo italiano).

Tali antipatie erano forti nell’ala più strettamente berlingueriana del PCI, nell’area demitiana della DC (fino ad i suoi eredi, Prodi e Bindi), nel cosiddetto neo-azionismo di Scalfari e “Repubblica”. C’è da notate come tutte e tre queste posizioni abbiano (per ragioni diverse) ostacolato la evoluzione della sinistra verso il socialismo democratico.

Ma non possiamo comprendere tale ruolo e confutare certe tesi se ragioniamo con una molto discutibile ottica italo-centrica (la assurda tesi dell’Italia come ombelico del mondo per quanto concerne la sinistra). Ottica che ha portato a svalutare il ruolo storico dello stesso socialismo europeo (frutto anche di una straordinaria ignoranza – che ha colpito anche il Psi nella fase frontista).

Nel 1931 i partiti aderenti alla IOS (Internazionale Operaia e Socialista) – dati della Enciclopedia Treccani – avevano in Europa 6 milioni di iscritti e 26 milioni di voti. Si trattava della più formidabile organizzazione di massa mai vista e che quindi ha permesso una grande integrazione delle masse lavoratrici e popolari in forma democratica (al contrario della integrazione totalitaria del fascismo e dello stalinismo) nello stato e nella politica. E parliamo di un anno (il 1931) in cui era trascorso un decennio dalla scissione comunista e bolscevica del movimento socialista, la quale però ebbe scarsa presa (con qualche eccezione) nell’Europa Occidentale.

In Italia sono stati Massimo Salvadori ed Enzo Collotti gli storici della sinistra che hanno ben focalizzato la importanza del movimento socialista democratico tra le due guerre mondiali. Poiché in quel periodo si hanno delle trasformazioni importanti nella cultura politica socialista che poi avranno la loro influenza nel periodo postbellico.

Innanzi tutto si va delineando la definitiva spaccatura del movimento socialista tra socialisti democratici e comunisti, che tendono a divenire dei modi a se stanti.

Non subito, per verità. Nei primi anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, socialisti e comunisti sono due realtà politiche conflittuali, ma restano in qualche modo intercomunicanti.

Nella IOS non c’è una condanna netta della rivoluzione bolscevica. Fino al 1926 c’è ancora in molti socialisti la speranza di poter ricomporre unitariamente il movimento operaio diviso. Otto Bauer è uno dei sostenitori di tale posizione. Egli ritiene che la esperienza russa sia il frutto di circostanze eccezionali non ripetibili e soprattutto non esportabili in Europa Occidentale (è lo stesso giudizio di Turati). Del resto allora era molto difficile poter dare un giudizio sull’esperienza russa sia per forte mancanza di informazioni, sia perché essa appariva come un qualcosa di completamente nuovo e difficile da decifrare in quel contesto. Ma allo stesso tempo Bauer sottolinea che il socialismo in Europa Occidentale doveva seguire un percorso e dei metodi totalmente differenti da quelli bolscevichi, percorsi e metodi (Bauer se ne rende conto) che configurano un modello sociale e politico radicalmente diverso da quello che si andava delineando in Russia. Bauer è il primo a parlare di “socialismo democratico” in modo sistematico per distinguerlo da quello “primitivo e dispotico” frutto della forte arretratezza della Russia.

In realtà (ma questo divenne ben visibile solo diversi anni dopo) in Russia non si stava costruendo nessun socialismo. Turati fu profetico (e Turati non condannava in blocco la rivoluzione) nel prevedere che il bolscevismo si sarebbe trasformato in uno strumento del nazionalismo e militarismo russo. Lo stalinismo (che poi ha delineato le fondamenta del “socialismo reale” in tutto il mondo) questo era. Il comunismo diventa la maschera ideologica (come lo è diventata poi in Cina) del nazionalismo forte dei grandi paesi emergenti. Ma al tempo stesso tali regimi erano la più decisa negazione delle istanze di liberazione umana e sociale del socialismo.

Del resto la teoria del “social fascismo” esprimeva la chiara intenzione di Stalin di rompere in maniera definitiva con il movimento socialista. Certo negli anni '30 poi ci furono i “fronti popolari” ma essi nascevano dall’esigenza difensiva contro il fascismo e soprattutto il nazismo. Nel 1939, dopo il patto di non aggressione tra Hitler e, Stalin la rottura tra socialismo democratico e comunismo diventa irreparabile e definitiva a livello europeo e mondiale.

Certo il comunismo di Stalin poco aveva a che vedere con il “comunismo teorico”, ma le parole vanno considerate per il significato concreto che esse assumono nella storia. Ma non c’è forse un limite strutturale nello stesso comunismo teorico? Il fatto è che pensare di costruire una società socialista tramite la dittatura e la violenza sistematica porta alla cosiddetta “eterogenesi dei fini”. Pertanto il socialismo democratico degli anni '20 e '30 inizia a delinearsi come una “terza via” virtuosa tra capitalismo e comunismo. Ed a ridefinire lo stesso concetto di socialismo proiettandolo fuori dagli schemi dell’ortodossia marxista-leninista che riduce il socialismo ad un puro modo di produzione transitorio tra capitalismo e comunismo.

In una opera che, almeno fino a Lenin , non era mai stata considerata importante, dagli studiosi di Marx stesso; un opuscolo di 50 pagine – “la critica al Programma di Gotha”, Marx intravede lo sviluppo della società socialista in due fasi distinte nel tempo ma non contrapposte. Una prima fase in cui il prodotto sociale e distribuito secondo il contributo lavorativo di ciascuno; una seconda fase in cui il prodotto viene distribuito secondo i bisogni di ognuno. Questa seconda fase di socialismo pienamente realizzato venne definita da Lenin “comunismo” – la prima fase socialismo “tout-court” (la distinzione semantica è di Lenin non di Marx). Per Marx tale società comunista resta un obbiettivo lontano nel tempo ed è subordinata al raggiungimento di uno sviluppo illimitato delle forze produttive “quando le sorgenti della ricchezza sociale scorreranno nella loro pienezza ed il lavoro diverrà il primo bisogno dell’uomo, la società potrà scrivere sulle sue bandiere – da ognuno secondo le sue capacità , ad ognuno secondo i propri bisogni” (Marx).

I socialisti marxisti democratici come Bauer ed Hilferding videro in tale posizione un residuo di socialismo utopistico (alla Saint-Simon). Infatti la società comunista così immaginata prevedeva la estinzione dello stato (o meglio dello stato politico che si trasforma in puro apparato amministrativo) , della democrazia e del diritto. E’ evidente che tale visione era condizionata da un determinismo finalistico (sintesi del positivismo di Saint Simon e dello storicismo di Hegel) mediante la ipostatizzazione di una condizione che segna di fatto la fine del processo storico e che tende a far fuoriuscire lo stesso socialismo da un contesto storico e politico concreto trasformandolo nella idea mistica di una palingenesi dell’umanità. Marxisti come Kautsky, Bauer, Hilferding si resero conto che l’evoluzione storica andava in direzione diversa rispetto all’idea di una estinzione dello stato e del diritto (e comunque di una società priva di obblighi sociali e mediazioni istituzionali). Si trattava quindi non di inseguire la mistica della estinzione dello stato ma di perseguire la profonda trasformazione dello stato da parte della democrazia sociale.

Habermas ha definito tale visione palingenetica come concezione “sostanzialista” del socialismo: il socialismo inteso come “totalmente altro” entità pienamente e totalmente trascendente rispetto alle altre formazioni storiche. Riccardo Lombardi ha messo bene in evidenza come il comunismo immagini una società omogenea che pretende di dissolvere conflitti e contraddizioni; e rileva la differenza tra una società egualitaria che però valorizzi le differenze e non pretende di sopprimere i conflitti (ma di risolverli democraticamente) – il socialismo democratico per l’appunto, dalla società compatta ed omogenea del comunismo. Inoltre Lombardi rileva l’irrealismo dello sviluppo illimitato delle forze produttive (ma al tempo di Marx non era concepibile Georgescu-Rogen e la teoria dei limiti fisici della crescita).

Ma il primo dopoguerra non sono solo gli anni dell’affermazione dello stalinismo. Sono gli anni in cui entra in crisi la civiltà liberale che ritrova il suo pieno fallimento nella I Guerra Mondiale. Ed in cui entra in crisi il primo capitalismo liberale, la cui fase suprema (qui ha ragione Lenin) quella dell’imperialismo provoca due guerre mondiali, inframmezzate, dalla grave crisi del '29. Polanyi analizza mirabilmente il passaggio dal capitalismo liberale a quello regolato e le stesse mutazioni politico-antropologiche che esso comporta. Ma Lenin sbaglia e di grosso a pensare che l’imperialismo sia la fine del capitalismo “tout-court” e non la fine di una determinata fase del capitalismo.

Comunque il socialismo europeo (e qui vi sono contributi sia di socialisti marxisti come Bauer, Hilferding ed Adler che di non marxisti come Cole, Polanyi – per dimostrare quanto sia stupida la contrapposizione dei pellikans la tra socialismo marxista e socialismo liberale) si rende conto di avere a che fare con un capitalismo che sta mutando e che questo capitalismo costringe i socialisti a fare un salto di qualità. Ma di questo ne abbiamo già parlato in altri saggi.

Ora come si collega la vicenda del socialismo italiano nel contesto storico sopra delineato. Secondo me il Psi ha avuto due fasi profondamente negative politicamente nel dopoguerra. La prima è quella del frontismo dal 1948 al 1956, in cui l’azione socialista non è stata visibile, occultata dalla egemonia comunista e dalla fedeltà al campo sovietico. La seconda in cui forse è stata fin troppo visibile (ma in senso negativo) è quella del craxismo “duro” dal 1984 al 1992.

C’è stato un lungo periodo intermedio in cui invece la azione politica socialista ha avuto effetti molto positivi per la democrazia italiana. Sappiamo che nel 1946 il Psi era più forte del Pci elettoralmente (anche se il Pci era molto più organizzato). La scissione di Saragat relega i socialisti a forza minoritaria della sinistra ed a terzo partito italiano. Il dualismo DC-PCI ed il bipartitismo imperfetto che si produce blocca la possibilità di una alternanza (i comunisti lo sapevano per primi – gli accordi di Yalta hanno il loro peso). Ma tale democrazia bloccata sarebbe comunque diventata una democrazia paralizzata e priva di capacità evolutiva senza l’azione dell’autonomismo socialista dopo il 1956. Questo è l’anno cruciale per la sinistra italiana. La invasione dell’Ungheria dimostra la piena incapacità di riformare democraticamente il comunismo anche con la destalinizzazione (del tutto formale). La rottura di Nenni dà la possibilità ai socialisti di giocare le proprie carte politiche.

Il bipartitismo imperfetto aveva costretto le forze innovatrici del PCI e progressiste della DC in una gabbia. L’autonomismo socialista fa da elemento catalizzatore delle potenzialità di entrambe queste due aree. Il primo centrosinistra è concepito, non tanto da Nenni, ma Da Lombardi, De Martino e Giolitti come un processo di liberazione delle masse popolari ed operaie cattoliche dalle ipoteche moderate. E come referente per quelle forze nel PCI (Amendola in primis) che se, certo non coincidenti. erano compatibili con il socialismo democratico.

E’ proprio sull’asse tra socialisti e sinistra democristiana di allora (prima Fanfani e poi Donat-Cattin) che si costruisce la grande politica riformatrice degli anni '60. Nazionalizzazione dell’energia elettrica, statuto dei lavoratori, pensioni a ripartizione, eliminazione delle gabbie salariali, scuola media unica. Si inizia a parlare di programmazione ed anche se essa non verrà realizzata (per le resistenze democristiane) si costruiscono comunque gli elementi embrionali di un governo dell’economia. Naturalmente il programma di centrosinistra fu realizzato in parte. Lombardi e Nenni sopravvalutarono la forza della sinistra democristiana e sottovalutarono le resistenze conservatrici dei dorotei. I comunisti fecero una opposizione dura e le posizioni aperturiste di Amendola vennero sconfitte. De Martino a ragione rimprovera questo atteggiamento al PCI che non certo favorì la politica socialista.

Ma, pur con i suoi limiti, avendo un quadro completo della evoluzione storica della Italia repubblicana, il “vero” centrosinistra di allora rappresentò la politica più coraggiosamente riformatrice mai sperimentata in Italia.

Ed ebbe delle conseguenze politiche importanti. Il processo di liberazione delle masse cattoliche favorì l’unità sindacale (che era uno dei cavalli di battaglia di un grande sindacalista socialista come Santi) che a sua volta permise il dispiegarsi delle grandi lotte sociali a cavallo tra gli anni '60 e '70 che hanno cambiato in positivo il volto del paese. E del resto anche la politica di apertura a sinistra verso il PCI negli anni '70 è il frutto di quella stagione. Ma degli anni '70 abbiamo già discusso a lungo.

Il Psi ha svolto un ruolo altamente positivo quando appunto ha svolto il ruolo di catalizzatore politico. E’ stato velleitario quando ha preteso di voler ribaltare i rapporti di forza con il PCI. Era un obbiettivo sbagliato ed impossibile. E Craxi lo ha perseguito senza curarsi della coerenza tra fini e mezzi. Qui sono i suoi errori che poi hanno determinato degenerazioni. Ma sono errori politici non azioni criminali. Di questo ne abbiamo già discusso a lungo così come dei grandi errori fatti da Berlinguer.

La sinistra della II Repubblica è stata azzerata perché si cancellata la sua memoria storica. Sia quella socialista, sia la parte migliore di quella del PCI. Si rimuove tutto per sensi di colpa ed infatuazioni nuoviste. Ma alla sinistra che vogliamo costruire serve la lezione e l’insegnamento di quell’autonomismo socialista che tanto ha dato alla democrazia italiana.

Il mio pessimismo (inevitabile dopo questi 20 anni) mi dice che in Italia non avremo mai un partito socialista come nel resto d’Europa. C’è un accavallarsi di ignoranza, di infantilismo ,di folclore e di provincialismo nella sinistra italiana che difficilmente ci farà raggiungere standard europei (e siamo comunque in una fase di crisi dell’Europa). C’è poi una storia propria dell’Italia che non si può cancellare. Ma comunque un soggetto che quanto meno si approssimi ad una forza di ispirazione socialista europea (ed aderisca al PSE) bisogna tentare di costruirlo. Ho più volte detto che il socialismo democratico è componente essenziale di quella identità sociale europea (che il neoliberalismo vuole distruggere – e talvolta anche aiutato dalle stesse derive moderate della socialdemocrazia). La crisi che investe l’Europa non ci permette di continuare a restare provinciali. La crisi della globalizzazione neoliberale ha accentuato il conflitto economico internazionale; quello tra Usa e Cina in particolare. La storia ci insegna che le ondate di globalizzazione capitalistica si sono in genere concluse con guerre. Ora siccome nessuno auspica una guerra tra Cina ed Usa, occorre modificare profondamente il meccanismo economico internazionale (lo dice con chiarezza un dissidente cinese). L’Europa, grazie al socialismo democratico, ha rappresentato la più alta sintesi possibile tra giustizia, coesione, democrazia e tolleranza nell’ultima metà del '900 ed è tuttora un punto di riferimento per chi nel mondo combatte contro le ingiustizie e le diseguaglianze del modello neoliberale. Un rinnovato socialismo e non una indistinta ed indefinibile sinistra, potrà all’Europa far ritrovare se stessa.

Peppe Giudice


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